i profili di costituzionalità del reato di stalking

  • 02-02-2011
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cassazione penale sez V. n.6417/2010

 

Rivista dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti - N.00 del 02.07.2010

 

Problemi di costituzionalità nell'applicazione della normativa sullo stalking?

Nota a Cass. pen. Sez. V, n. 6417/2010

di Andrea Lollo,

assegnista di ricerca in Diritto costituzionale presso l'Università di Catanzaro;

dottorando di ricerca in "Giustizia costituzionale e diritti fondamentali" presso l'Università di Pisa

 

1. La sentenza n. 6417/2010 Cass. pen. sez. V consente di riaprire un dibattito che, all'indomani

dell'entrata in vigore del decreto legge n. 11/2009, si era acceso nella dottrina penalistica su alcuni

caratteri strutturali del nuovo reato di «atti persecutori» (c.d. stalking)1. Un dibattito dalle molteplici

implicazioni sulla tenuta di alcuni principi costituzionali fondamentali, che non può lasciare

indifferente neppure la dottrina costituzionalistica.

Infatti, è proprio il coinvolgimento del principio di legalità - nel suo corollario della precisione e

della chiarezza dei testi - e del divieto di applicazioni retroattive della legge penale sfavorevole che

ammanta di "rilevanza costituzionale" la sentenza in commento; una delle primissime pronunce di

legittimità in tema.

2. Per entrare subito in medias res, è opportuno ricostruire per tratti essenziali la vicenda che ha

dato origine al giudizio giunto dinanzi alla Corte di Cassazione:

il gip del tribunale di Ravenna rigettava l'istanza di revoca o di sostituzione della misura della

custodia cautelare avanzata da O.P., indagato per il delitto di cui all'art. 612-bis c.p.

Il tribunale di Bologna, quindi, confermava la misura custodiale, ai sensi dell'art. 310 c.p.p.,

ritenendo che l'O.P. si era reso autore di minacce, violenza privata e danneggiamento nel periodo

dal 2 gennaio '09 al 21 febbraio '09 e che ulteriori condotte aveva posto in essere nei giorni 25 e 26

febbraio '09.

Ricorrendo in Cassazione, il difensore asseriva, in primo luogo, che gli atti compiuti dal 2 gennaio

al 21 febbraio sarebbero stati irrilevanti ai fini dell'art. 612-bis, in quanto anteriori alla sua entrata

in vigore; in secondo luogo, che le due sole condotte commesse nei giorni 25 e 26 febbraio non

sarebbero state sufficienti per la consumazione del reato contestato, caratterizzato da una condotta

plurima.

Il giudice di legittimità rispondeva alle censure sollevate affermando che poiché «il termine

"reiterare" denota la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza

(...) se ne deve evincere, dunque, che anche due condotte sono sufficienti a concretare quella

reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto». Sulla base di tali

argomentazioni, confermava il provvedimento restrittivo della libertà personale.

Nonostante l'esiguità della motivazione, è possibile cogliere immediatamente i punti cruciali della

vicenda, che vede il consesso di legittimità costretto a destreggiarsi per via ermeneutica, da un lato,

con l'indeterminatezza di un testo di dubbia compatibilità con il principio di legalità, nella parte in

cui richiede quale elemento consustanziale del reato una imprecisata "reiterazione" della condotta;

dall'altro, con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale sfavorevole.

3. Per cominciare, la Corte non sembra neppure prendere in considerazione la possibilità di

sollevare, nelle vesti di giudice a quo, questione di legittimità costituzionale dell'art. 612-bis, per

violazione dell'art. 25, comma II, Cost. L'eventuale pronuncia della Corte costituzionale, forse,

avrebbe potuto divenire l'occasione per valutare la consistenza delle censure mosse a prima lettura

dalla dottrina penalistica2; censure che, in effetti, non paiono del tutto infondate.

Difatti - limitando l'attenzione all'oggetto della pronuncia3 - seri dubbi di legittimità costituzionale

derivano dall'utilizzo di alcune clausole in grado di riservare ai giudici una eccessiva discrezionalità

nella determinazione degli elementi essenziali del reato. Oltre alla formula «reiterazione» della

condotta minacciosa o molesta, non è agevole comprendere neppure se, ai fini dell'accertamento del

perdurante e grave stato di ansia, tipizzato come conseguenza della condotta antigiuridica, sia

necessario ricorrere all'accertamento medico4 - ipotesi che sembrerebbe più coerente con il

principio di determinatezza - ovvero se sia sufficiente fare ricorso a criteri di comune esperienza;

del pari, non appaiono sufficientemente determinate le espressioni «fondato timore per l'incolumità

propria o di un prossimo congiunto», ed «alterare le proprie abitudini di vita»6.

Probabilmente, la Corte costituzionale - magari con una pronuncia interpretativa, qualora avesse

ritenuto infondata la questione - avrebbe potuto fornire preziose indicazioni anche per la successiva

giurisprudenza comune in via di formazione.

4. La Corte di Cassazione, invece, decide di far da sé, risolvendo la vicenda con una stretta

interpretazione letterale7, che suscita qualche perplessità.

Innanzitutto, infatti, l'affermazione per cui due sole condotte integrano il reato di stalking mal si

concilia con la struttura di reato abituale dello stesso, che dovrebbe al contrario richiedere una

condotta costante, ripetuta nel tempo, che assume valenza assillante, anche alla luce del carattere

permanente degli eventi-conseguenza richiesti. Se si aderisse integralmente a questa interpretazione, poi, per il futuro potrebbe divenire arduo

distinguere in concreto il delitto di «atti persecutori» da altri delitti affini commessi in concorso

materiale tra loro, come ad esempio la minaccia aggravata, ai sensi dell'art. 339 c.p.; difatti, in

questa ipotesi, ciò potrebbe risultare non poco disagevole, se si considera che le modalità esecutive

della minaccia aggravata potrebbero cagionare gli eventi tipizzati dall'art. 612-bis.

Il problema si acuisce, inoltre, se si pone mente alle rilevanti differenze sanzionatorie che

deriverebbero dalla diversa qualificazione dei fatti.

Ancora più critica, peraltro, appare l'ipotesi in cui ad una duplice molestia, o minaccia, non facesse

seguito alcuno degli eventi necessari per integrare gli «atti persecutori»: in questo caso, infatti,

poiché probabilmente gli atti sarebbero astrattamente idonei ex art. 56 c.p., risulterebbe ancora più

problematica la distinzione tra tentato stalking e concorso materiale in molestia o minaccia9.

Come si può intuire, in entrambi i casi il pericolo è di riservare al giudice una eccessiva

discrezionalità nella qualificazione dei fatti penalmente rilevanti, con seri dubbi di conformità con il

fondamento costituzionale del principio della riserva di legge nella materia penale.

5. Probabilmente, quindi, la soluzione più conforme a Costituzione - se si esclude la pista della

rimessione della questione alla Corte costituzionale - sarebbe stata quella dell'accertamento in

concreto della potenzialità lesiva della condotta nei confronti del bene giuridico tutelato. Soluzione,

inoltre, in linea con i desiderata della Corte costituzionale, che ha più volte ricordato come il

principio di offensività in concreto attribuisca al giudice il compito di accertare che il fatto abbia

effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato10.

Secondo tale impostazione, che può valere per casi analoghi, quindi, il giudice dovrebbe indagare di

volta in volta la sussistenza di un nesso eziologico tra fatto ed evento, mentre nei casi di mancata

produzione dell'evento l'indagine dovrebbe avere ad oggetto la potenzialità lesiva della condotta

alla lesione del bene giuridico tutelato, con un giudizio di idoneità formulato ex ante.

Se è sicuramente vero - per rispondere ad una eventuale obiezione - che nel caso in esame il

giudice di legittimità aveva accertato il verificarsi degli eventi strutturali della fattispecie, non è

però da escludere che questi fossero conseguenza di una condotta che in larga parte si era

consumata anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 612-bis, e di cui le ultime due azioni

costituivano solo il frammento conclusivo. D'altra parte, si può immaginare che proprio l'esigenza

di evitare l'applicazione retroattiva della legge penale abbia suggerito alla Corte di risolvere la

questione in maniera un po' "pilatesca", con una interpretazione letterale della norma tale da

escludere le condotte antecedenti ai fini della decisione.

Sia consentito, però, di nutrire qualche dubbio sull'esito di tale operazione.

A tele scopo, è necessario chiarire in via preliminare l'adesione alla tesi patrocinata dalla dottrina

penalistica maggioritaria, secondo cui, per evitare l'applicazione retroattiva della legge penale

sfavorevole, andrebbe escluso il cumulo tra le condotte antecedenti e quelle successive nel caso di

successione di norme creatrici di una nuova tipologia di reato abituale. Nella fattispecie che si sta

esaminando, quindi, il giudice di legittimità avrebbe dovuto accertare che l'evento fosse

conseguenza delle sole condotte successive, escludendo dal computo quelle anteriori, punibili solo a

titolo di reati autonomi, eventualmente in concorso materiale tra di loro.

Ma se si pone mente al carattere duraturo degli eventi tipizzati dall'art. 612-bis, è difficile

immaginare che essi potessero essere la risultante di due sole condotte.

Per queste ragioni, perciò, il pericolo è che dietro l'interpretazione letterale della disposizione si sia

celata una applicazione retroattiva della legge penale.

Se la Corte si fosse pronunciata ex professo su tali questioni di diritto intertemporale, forse avrebbe

potuto orientare la giurisprudenza sull'individuazione dell'esatto momento di consumazione dei

reati abituali, anche alla luce dei contrasti esistenti.

Qualche indicazione, tuttavia, può desumersi da una esigua giurisprudenza di legittimità, formatasi

su altri reati ad esecuzione frazionata, come la truffa aggravata ex art. 640-bis, ovvero il reato

previsto dall'art. 9 della legge n. 1423/1956, che punisce chi, in stato di sorveglianza speciale,

venga sorpreso in compagnia di pregiudicati. In tali pronunce, la Cassazione sembrerebbe

ammettere il cumulo delle condotte.

A simili conclusioni, peraltro, è pervenuta sino ad ora anche la giurisprudenza maggioritaria di

merito all'atto dell'applicazione della normativa sullo stalking12.

Tali orientamenti preoccupano per la tenuta del principio di irretroattività della legge penale;

principio che, come la Corte costituzionale ha più volte riconosciuto, sottraendolo ad operazioni di

bilanciamento13, è espressione di fondamentali valori di civiltà giuridica.

Per porre un argine, per il futuro, al pericolo di deprecabili applicazioni incostituzionali, è

fondamentale che si faccia una attenta indagine - ragionando caso per caso - sul momento di

consumazione del delitto, che tenga in adeguata considerazione la struttura di reato di danno e di

evento degli «atti persecutori»14.

In tale prospettiva, l'indagine sul tempus commissi delicti dovrebbe orientare il giudice nella

qualificazione dei fatti penalmente rilevanti.

Per concretizzare tale affermazione, ipotizziamo di trovarci di fronte a tre possibilità, sintetizzabili

per come segue15:

a) la condotta ed uno degli eventi si verificano prima dell'entrata in vigore della nuova norma.

In questa ipotesi, si dovrebbe escludere lo stalking, a meno che la condotta prosegua, provocando

un nuovo evento o un suo aggravamento16;

b) l'evento si verifica dopo l'entrata in vigore della norma incriminatrice, ma è causalmente

ricollegato ad una condotta antecedente, che non si ripete dopo l'entrata in vigore della norma

incriminatrice.

 

Anche in questa ipotesi dovrebbe escludersi lo stalking, individuandosi nel momento in cui è stata

compiuta la condotta quello di consumazione del reato;

c) l'evento si verifica dopo l'entrata in vigore della norma incriminatrice, ma la condotta è

frazionata cronologicamente in momenti antecedenti e successivi.

In questo caso, che è sicuramente il più complesso, l'indagine sul nesso di causalità dovrebbe essere

limitata ai soli fatti successivi all'incriminazione, mentre quelli commessi anteriormente sarebbero

punibili solo a titolo di reati autonomi, se incriminabili.

Di certo, non è da escludere, però, che la particolarità di alcuni casi concreti potrebbe rivelare delle

insidie tali da palesare l'ingenuità di una proposta metodologica - che ci permettiamo di avanzare -

che si sviluppa nell'alveo della riflessione teorica.

Difatti, nel passaggio dalla prospettiva astratta a quella concreta, si potrebbe correre il rischio di

dover fare i conti con delle difficoltà tali da mettere in crisi l'impianto teorico costruito, in tutti i

casi in cui spettasse al giudice il compito di individuare esattamente il nesso di causalità tra fatto ed

evento nei casi di una condotta frazionata (come nell'ipotesi sub c).

6. Analizzati i profili essenziali della vicenda, è ora possibile concludere con alcune minime

osservazioni volte a ricondurre in ambito più generale la riflessione intrapresa.

Come si è già accennato, i rapporti tra legislatore e giudici si fanno particolarmente delicati nelle

materie, come quella penale, in cui vige una riserva di legge assoluta.

In questi contesti, l'esigenza di leggi chiare e precise è più pressante, in quanto il deficit di

determinatezza si riverbera negativamente sull'attività degli operatori giudiziari, nonché sulla

distinzione funzionale tra organi di legis latio e organi di legis executio. Per tali ragioni,

l'alternativa al non liquet, che comunque costituirebbe una soluzione incostituzionale, è l'eccesso

interpretativo dell'organo giudiziario, di dubbia compatibilità, però, con il principio costituzionale

della riserva di legge. Tuttavia, la strada della questione di legittimità costituzionale, che pur

sembrerebbe la più corretta nella vicenda annotata, rischierebbe di coinvolgere eccessivamente

nell'agone politico la Corte costituzionale, proprio laddove il Parlamento, forte della diretta

investitura popolare che lo caratterizza, dovrebbe rivelarsi il principale attore delle scelte

incriminatorie.

 

TESTO DELLA SENTENZA

LIBERTA' INDIVIDUALE (DELITTI CONTRO LA)   -   MISURE CAUTELARI PERSONALI
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-01-2010) 17-02-2010, n. 6417

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO MOTIVI DELLA DECISIONE

Il GIP del Tribunale di Ravenna rigettava l'istanza di revoca o di sostituzione della misura della custodia domiciliare, avanzata da O.P., indagato per il delitto di cui all'art. 612 bis c.p..

Il Tribunale di Bologna ex art. 310 c.p.p. confermava, osservando che O. si era reso autore di minacce, violenza privata e danneggiamento nel periodo dal (OMISSIS) e che ulteriori condotte aveva posto in essere nei giorni (OMISSIS).

Ricorre il difensore, assumendo che gli episodi precedenti l'entrata in vigore della norma incriminatrice in questione non possono essere oggetto di considerazione alcuna; che due sole condotte, quali quelle contestate nella specie, non sono suscettibili di integrare l'illecito gravato, qualificato da condotta plurima.

In punto di adeguatezza si evidenzia che le esigenze cautelari potrebbero essere soddisfatte con la misura cautelare introdotta dall'art. 282 ter c.p.(divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla p.o.).

Le censure sono prive di fondamento.

Le condotte di minaccia o molestia devono essere "reiterate", sì da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima ovvero un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone vicine o, infine, costringere la p. l. a modificare le sue abitudini di vita.

Il termine "reiterare" denota la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza.

Se ne deve evincere, dunque che anche due condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto.

Del resto, l'assunto difensivo è smentito dal provvedimento impugnato, atteso che l'indagato, nel corso del 25 e del 26 febbraio '09, "è giunto tre volte dinanzi al bar gestito dal C., senza altro vero scopo, se non quello di indirizzare verso di lui sguardi eloquenti, gesti minacciosi e di tenere atteggiamenti di sfida".

Ineccepibile e diffusa appare la motivazione in punto di adeguatezza della misura cautelare adottata, posto che il Tribunale evidenzia i numerosi e gravi precedenti penali dell'indagato, che ne rivelano la capacità a delinquere e la proclività all'uso della violenza.

Il ricorso va rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese del procedimento.

P.Q.M.PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2010

 

 


Autore: andrea lollo da associazione dei costituzionalisti italiani